Pedro Almodovar e il realismo passionale

Quando avevo vent’anni la Spagna per me era un film di Pedro Almodóvar. A quell’età (ora ancor di più) avrei dato qualsiasi cosa per vivere in una sua pellicola, perché in parte ci vivevo da sempre pur mancandomi l’insieme di tutti quei colori accostati in modo mistico e di tutte quei personaggi che, a trovarseli nella propria cerchia di amici, ti avvicinerebbero certo più velocemente al senso della vita. Penso al naso di Rossy De Palma, un’opera d’arte, all’ingenuo e morboso Antonio Banderas del film Legami, alla pancia per niente piatta fasciata nel rosso stretch di Carmen Maura, alla sensualità trasgressiva e buffa di Victoria Abril, alla bellezza struggente di Miguel Molina.

Rossy De Palma Pedro Almodovar

Realismo passionale è l’etichetta che assegno all’arte di Almodóvar. La sua poetica ci dice che ai margini c’è la letteratura della vita e che nella passione si trova l’origine. Il turchese, il giallo zafferano, il rosso corallo e l’arancione che colorano le sue pellicole sono simboli della bellezza che ci salverà. Ci salverà dal mal d’amore e dallo struggimento dell’abbandono. Ma, sembra chiedersi il regista, l’amore fa male? La risposta attinge al melodramma e non alla psicoanalisi, teoria a cui il regista sembra dare poco credito, e trova pace nell’esagerazione. Un’immagine simbolo della poetica di Pedro Almodóvar si trova ne La legge del desiderio nel momento esatto in cui Tina (interpretata dalla splendida Carmen Maura) spacca la stanza con l’ascia, disperata per amore, mentre Ada, una bambina di cui si occupa come una madre, figlia di una fotomodella sempre in giro per il mondo, canta Ne me quitte pas indossando un vestito da cresima, religiosissima, girando su un rullo cinematografico. Poi il telefono squilla, è lui, mentre la madre di Ada finalmente torna, è lei.

Struggente. La mancanza porta all’eccesso, l’isteria di certi abbandoni commuove e fa sorridere. Si dice che il regista ami occuparsi di esistenze marginali ma questo è un pensiero moralista che non condivido. Chi non ha mai lanciato un telefono per amore? La mescolanza tra il melodramma e la sua parodia è ciò che permette al regista di non cadere mai nella retorica borghese, nel pathos spinto e nell’immedesimazione spicciola. Lui punta dritto al groviglio inconscio, fatto di eccessi, di emozioni amplificate, di ricompense d’amore impossibili. L’essere umano, sembra dire alla borghesia tutta facciata che nasconde le proprie ossessioni nei sogni o che le proprie ossessioni le agisce di nascosto (come vediamo accadere nel nostro bel paese), è fatto di incoerenza e desideri, di follia e compassione (nell’accezione buddista) e la salvezza è da cercare nella condivisione delle nostre stramberie dell’anima.

I suoi film, specie i primi, sono pieni di movida madrileña e mostrano una Spagna un po’ underground, spesso oltraggiosa e provocatoria, di sicuro trash. All’inizio Pedro Almodóvar amava scandalizzare, schiaffeggiare il buonsenso borghese. Abbandonata la ribellione spinta il regista si è poi dedicato alla poetica dell’eccesso come gesto di realismo estremo.

Sarà a Cannes e uscirà in Italia in autunno La piel que habito, il suo nuovo film tratto da un romanzo del francese Thierry Jonquet, Tarantola. La pellicola porterà in sala la sete di vendetta di un chirurgo estetico, Antonio Banderas, nei confronti dell’uomo che ha stuprato sua figlia. Nonostante Almodóvar consideri questo film molto diverso dal resto della sua produzione cinematografica dalla trama è certo che ancora una volta la poetica dell’eccesso si trasformerà in provocatorio realismo. Un melò del terrore che non farà paura in cui sarà presente la consueta mescolanza di reale e surreale, dramma e parodia, comico e melodrammatico.

Di Sara Gamberini